
«Nella grave crisi in cui siamo immersi necessitiamo continuamente di avversari per definire le nostre identità, e spesso ci scopriamo nemici addirittura di noi stessi, in una sorta di permanente guerra interiore. Abbiamo perso un’idea e una direzione collettiva, disperdendoci e isolandoci sempre di più. Così il senso della comunità viene meno».
In questo breve passaggio scritto da Vito Mancuso qualche anno fa nel suo libro “A proposito della vita” c’è tutta la differenza tra l’Italia di oggi e quella di ottanta anni fa. Dove oggi vediamo, percepiamo, alimentiamo – sì anche noi che oggi siamo qui non possiamo sentirci assolti – individualismi, paure e vendette, nell’immediato dopoguerra e negli anni successivi il nostro Paese ha vissuto anni di libertà, partecipazione, democrazia e convivenza pacifica.
Non che non siano mancati anche in quel periodo brutti episodi: mio papà, emigrato dalla Basilicata nei primi anni 70, ricorda spesso i cartelli “non si affitta ai meridionali” attaccati alle porte delle case di Orbassano, Rivalta e dei paesi vicini. Anche alcuni di voi sicuramente li hanno vissuti come uno schiaffo in pieno volto, come un oltraggio alla propria dignità e al proprio essere un uomo di questa Mondo.
Ma quel tempo è passato e in molti ci auguravamo di non dover più leggere e raccontare episodi simili. E invece non è andata così. Il nostro Paese, certo in buona compagnia, sta regredendo sui valori e sui principi dell’accoglienza e dell’integrazione.
Questo è un fenomeno che avviene da anni attraverso la creazione di un circolo vizioso di paure vere e paure indotte, con un linguaggio della politica che assomiglia sempre più a quello della strada, attraverso la pancia del paese che detta l’agenda ad una politica orientata a curare esclusivamente il proprio orticello di consenso.
Non basta applaudire Papa Leone quando invoca il disarmo dei cuori e delle parole, occorre che chi ha gli strumenti e il potere lo faccia da subito e senza infingimenti.
Non ne faccio una questione contingente. Sono anni che il nemico esterno serve per coprire il fallimento della politica interna: dalla deindustrializzazione, alla denatalità; dal sopravvento della finanza e della precarietà, allo smantellamento dello stato sociale.
Ecco, invocare la paura dell’uomo nero è la peggiore arma di distrazione di massa che il ventunesimo secolo potesse riesumare.
Non mi stupisce quindi – anche se non la condivido – l’escalation di questi giorni. Viene punito il dissenso, minacciata la libertà d’espressione, oscurato il diritto di cronaca. Ancora una volta anziché curare le cause che scatenano manifestazioni e proteste, ci accaniamo esclusivamente sugli effetti. E come se un medico anziché curare i sintomi della malattia si preoccupasse sempre e solo delle sue conseguenze tamponandole di volta in volta con un inutile pannicello caldo.
I Costituzionalisti stanno evidenziando il contrasto di queste norme con quello che recita l’art. 3 della nostra Costituzione: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.”
Ed infatti se c’è un principio che abbiamo umiliato in questi anni è proprio il principio di uguaglianza, il più prezioso tra quelli indicati dai Costituenti, quello che più è stato combattuto dal regime fascista.
Leggendo una delle ultime norme approvate non posso provare disgusto e paura per un articolo che vieta agli stranieri senza permesso di soggiorno di acquistare schede telefoniche, punendo addirittura con il carcere chi contravviene a tale disposizione. E come se 50 anni fa a mio padre, e ai tanti meridionali che sono venuti al Nord in cerca di lavoro e di speranza, fosse stato vietato l’acquisto dei gettoni telefonici per comunicare con le loro famiglie d’origine.
E’ un modo disumano di trattare chi fugge da guerre e povertà, chi lascia tutto mettendo a rischio la propria vita per cercare di costruire in questa parte di Mondo un futuro migliore per sé e per la propria famiglia.
Rivalta ha una tradizione di accoglienza e fratellanza diffusa e concreta. Sono certo di non essere l’unico a sentirsi umiliato da queste scelte.
Ho voluto iniziare con un riferimento puntuale al presente perché la Costituzione, sempre quella che è la più bella del mondo, non è un testo qualunque, non è un libro da conservare in biblioteca e da consultare in vista dell’esame di diritto, non è un insieme di principi astratti o peggio ancora un elenco di begli ideali per anime ingenue.
Uno dei motivi principali per cui ho scelto di dedicarmi alla politica sta proprio nella paziente e costante costruzione di un senso di comunità. Il mio impegno quotidiano, per il ruolo e la responsabilità pro tempore che ho l’onore di ricoprire, è orientato faticosamente a tradurre in azioni concrete proprio il principio di eguaglianza.
Lo storico Massimo Salvadori, in un bellissimo incontro che si è svolto in biblioteca qualche mese con l’ex Presidente della Corte Costituzionale Gustavo Zagrebelsky, si è soffermato sul concetto di tirannide della culla. Un’espressione forte, che non riesco a togliermi dalla mente, e su cui tornerò il prossimo anno, quando mi auguro di riuscire ad inaugurare nella nostra Città, insieme a tutti voi, un nuovo luogo di incontro, riflessione e ricordo.
La Costituzione che oggi festeggiamo come elemento fondante della nostra Repubblica – per usare le parole di Pietro Calamandrei – “non è una carta morta, ma un testamento, un testamento di centomila morti.” E i testamenti, a casa mia, si onorano e si rispettano.
La Costituzione, ci ricorda ancora il nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, “è una Carta viva, che si invera ogni giorno nei comportamenti, nelle scelte, nell’assunzione di responsabilità dei suoi cittadini, a tutti i livelli e in qualunque ruolo”.
E proprio chi ha ruoli di responsabilità maggiori deve sentire forte il richiamo di quegli articoli.
E invece oggi il significato etimologico di Repubblica – la res pubblica dei latini – quella «cosa che riguarda tutti» si sta perdendo, rischiando di diventare sinonimo di «qualcosa che essendo di tutti non è più di nessuno»
E qui, tornando all’inizio del mio ragionamento, c’è tutta la differenza tra l’Italia del dopoguerra e quella di oggi.
C’erano in quegli anni obiettivi comuni, che riguardavano tutti e non lasciavano indietro nessuno: c’era la voglia di ricostruire un Paese uscito sconfitto dal Secondo conflitto Mondiale, un Paese che si era schierato dalla parte sbagliata della Storia; c’era la voglia di ridarsi un sistema democratico e plurale laddove per oltre vent’anni un unico partito – o meglio un’unica persona – ha governato l’Italia in tutte le sue – plurali diremmo oggi – articolazioni; c’era insomma la volontà di riunire l’Italia e provare a dare un futuro migliore alle generazioni future.
C’era una classe dirigente che già in clandestina o peggio ancora nelle prigioni fasciste aveva iniziato a pensare come dar forma all’Italia libera. Da dove ricominciare, per rimettere in piedi un Paese dilaniato, ferito, isolato agli occhi della comunità internazionale.
E non è un caso che la prima riconquista democratica fu proprio il diritto di voto, quel diritto-dovere di ogni cittadino oggi così brutalmente bistrattato e ignorato.
Il voto fu lo strumento con cui decisero di tracciare il percorso del nostro futuro.
Quel voto ri-conquistato proprio dopo gli anni della guerra, della resistenza, della liberazione, quel voto che per la prima volta il 2 giugno del 1946 ha permesso a tutti gli italiani e finalmente a tutte le italiane di dire da che parte volevano stare. Scegliendo tra monarchia e repubblica e scegliendo chi doveva rappresentarli all’assemblea costituente che avrebbe scritto una tra le più belle carte fondamentali che gli stati si sono dati, la nostra Costituzione. Una carta, ci ha ricordato ieri il Presidente Mattarella, che è il frutto di una scelta di pace, di libertà, di indipendenza, all’insegna del ripudio della violenza tra le nazioni.
Esercitare il diritto di voto è – forse – il momento più alto e rivoluzionario dell’essere cittadini consapevoli. Ecco perché è sempre attuale e possiede una valenza che va ben oltre la semplice battuta ciò che Paola Cortellesi fa pronunciare alla “sua” Delia nel film «C’è ancora domani»: «stringete le schede come fossero biglietti d’amore».
Chi ha visto il film e ricorda la scena deve sapere che quelle stupende immagini sono la trasposizione cinematografica di come la giornalista Anna Garofalo descrisse in un suo libro proprio il 2 giugno del 1946:
«Lunghissima attesa davanti ai seggi. Sembra di essere tornati alle code per l’acqua, dei generi razionati. Abbiamo tutte nel petto un vuoto da giorni d’esame, ripassiamo mentalmente la lezione: quel simbolo, quel segno, una crocetta accanto a quel nome. Stringiamo le schede come biglietti d’amore…».
Se nessuno la protegge, la democrazia rischia di spegnersi.
Se smettiamo di alimentarla, la democrazia muore.
Se non la pratichiamo quotidianamente, la democrazia non è più.
Viva la Repubblica,
Viva il 2 giugno,
Viva l’Italia.