OLTRE 250 PERSONE PER DIRE NO AL GENOCIDIO A GAZA

“E’ nella natura delle cose che ogni azione umana che abbia fatto una volta la sua comparsa nella storia del mondo possa ripetersi anche quando non appartiene a un lontano passato.”

Ho scelto le parole di Hannah Arendt per salutarvi e dirvi grazie per aver aderito all’invito a marciare insieme in questa tappa della Local March for Gaza che da settimane sta attraversando i nostri territori.

Quelle parole Arendt le scrive ne “La banalità del male”,  quel libro che ogni 27 gennaio riapriamo e leggiamo nelle fiaccolate che ci ricordano la Shoa, lo sterminio e il genocidio che il popolo europeo ha compiuto nei confronti degli ebrei.

Un libro – La banalità del male – che ci racconta come la barbarie, nel caso della Shoah, ma anche in tutti i casi in cui la storia si sta ripetendo, nasce nel vuoto dell’etica, nell’assenza di pensiero, nell’abitudine cieca all’obbedienza. 

Ma ho scelto quella scrittrice, quel libro e quelle parole perché Hannah Arendt è stata una cittadina tedesca di famiglia ebraica che ha vissuto le leggi razziali di Hitler e l’orrore della Seconda Guerra Mondiale.

La cito perchè qui, questa mattina, siamo tutti convinti che quanto sta avvenendo in Palestina sia del tutto assimilabile con quanto accaduto novant’anni fa

Fa orrore pensare quanto quella la sua profezia non abbia aspettato molto ad avverarsi.

Questo mi spinge anche ad un’altra riflessione: la memoria, la memoria di quanto già accaduto, da sola non basta. 

Non è bastata ai carnefici – gli europei che non hanno condannato e da subito fermato quanto sta accadendo da anni – non è bastata alle vittime di allora, che stanno ripetendo oggi lo stesso schema che hanno subito.

Oggi rispetto al passato è cambiato l’armamentario bellico con cui si combatte, sia quello che spara e uccide, sia quello che scrive e uccide lo stesso.

Se questa mattina siamo qui è perchè anche noi vogliamo rafforzare il nostro arsenale: quello della parola e della verità; della pace e della convivenza pacifica; dell’autodeterminazione e della libertà.

Le parole, che in questi anni i media tradizionali, i governi, le diplomazie, hanno usato per descrivere quel pezzo di mondo hanno fatto danni incalcolabili, al punto che, come scrive Francesca Albanese, “la verità è diventata menzogna e la menzogna verità”.

Perchè è una menzogna dire che quello cui stiamo assistendo sia iniziato il 7 ottobre 2023, ignorando gli insediamenti dei coloni, le guerre di invasione, l’occupazione dei territori, la costante e continua sottomissione del popolo palestinese allo strapotere economico, politico e militare dello Stato di Israele.

Perché è una menzogna dire che l’obiettivo del governo di Israele è ancora oggi il recupero degli ostaggi, di quelli ancora vivi e di quelli purtroppo morti. Solo una persona in malafede può credere che uno degli eserciti più addestrati al mondo, con il supporto politico e militare degli Stati Uniti, non riesca a recuperare una cinquantina di suoi concittadini  da due anni nelle mani di un gruppo di terroristi.

Perché è una menzogna sostenere che quello che sta accadendo – la distruzione sistematica di una città – è un’operazione chirurgica di sicurezza. E’ una menzogna definire “contesi” i territori occupati manu militari. E’ una menzogna definire la detenzione senza processo un arresto amministrativo. 

Quest’uso distorto della parola lo ha descritto molto bene Francesca Mannocchi su La Stampa qualche giorno fa. E così, scrive ancora, la parola uccidere viene sostituita da neutralizzare, per disumanizzare l’avversario e rendere accettabile, persino neutro, l’uso della forza.

Chi controlla le parole, controlla la realtà percepita. 

Lo vediamo tutti i giorni e non solo in questo contesto.

E allora, almeno noi, proviamo a dirle parole di verità.

E’ una verità che quelle terre centinaia e centinaia di anni prima che nel 1948 venisse proclamato lo Stato di Israele erano abitate dai Palestinesi. E’ vero, non esisteva e non esiste neanche oggi uno Stato di Palestina, ed è altrettanto vero che quella terra è stata segnata da invasioni e colonizzazioni, ma l’occupazione e lo sradicamento forzato è un’escalation che speravamo di non vedere più.

E’ una verità che a Gaza stanno morendo di stenti, di fame, di mancanza di medicine più persone di quante ne sono morte sotto le bombe. E’ una verità che esiste una volontà precisa di affamare un popolo, di costringerlo ad abbandonare le loro case, i loro affetti, la loro vita; a scappare – verso dove non si sa.

E’ una verità che il governo di Israele, con la complicità dei governi europei e americano, sta impedendo che arrivino aiuti umanitari e cure a centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini. 

E’ una verità che uno degli obiettivi del governo di Israele è quello di bloccare la  Global Sumud Flotilla, decine di navi cariche di aiuti per la popolazione di Gaza, e che il nostro Governo ha dovuto aspettare che le minacce si concretizzassero in veri e propri attacchi prima di dire e, soprattutto, fare qualcosa.

E’ una verità che il blocco navale in entrata nei porti di Gaza è stato imposto dal governo di Israele sin dal 2009, 14 anni prima del 7 ottobre 2023. 

Ma è altrettanto vero che in questa vicenda c’è un’altra parte che non voglio pensare una mia nemica, né voglio assimilare ai suoi pessimi governanti, quella del popolo di Israele e degli ebrei dispersi in tutto il mondo.

Lo dico convintamente riprendendo un altro passaggio del libro di Francesca Albanese. In una conversazione con un suo amico questo ha dichiarato che “il popolo ebraico ha un legame fortissimo con quella terra e con Gerusalemme in particolare. E’ la nostra storia.” – dice. 

Ma il fatto che dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale quello fosse diventato il loro luogo di approdo lui lo spiega così: “Nessuno ci voleva, in Europa. Noi eravamo gli appestati, dovevamo comunque sparire dal loro sguardo. Perché gli Europei non potevano neanche tollerare l’idea che ci fossero degli ebrei vittime di quello che era successo.”

E l’antisemitismo che ha sempre covato nella sub-cultura cattolica, democratica e bianca propria del mondo occidentale confermano questa tesi. Per gli ebrei non c’era e non c’è posto nel nostro mondo. 

E allora noi che siamo qui, che viviamo nelle nostre comode case, che mangiamo almeno tre volte al giorno e che vediamo alla televisione o leggiamo sui giornali quello che sta accadendo abbiamo una grossa responsabilità.

Abbiamo il dovere – come recita il manifesto della Local March for Gaza – di rivendicare la nostra umanità di fronte alla barbarie e i valori universali di fronte all’abisso.

E dico anche che oltre al cessate il fuoco e all’apertura delle frontiere agli aiuti umanitari, dobbiamo avere il coraggio di usarne un’altra di parola.

Lo faccio con le parole di un altro scrittore ebreo, Amos Oz, un altro intellettuale a cui ricorriamo nelle grandi e solenni occasioni. 

La parola che dobbiamo avere il coraggio di pronunciare è compromesso.

Scrive Oz: “So che questa parola gode di pessima reputazione nei circoli idealistici dell’Europa, in particolare tra i giovani, perché è considerata mancanza di integrità. Puzza. E’ disonesta. Nel mio vocabolario, invece, è sinonimo di vita. Il contrario del compromesso è fanatismo. O morte”.

Se ci pensiamo proprio fanatismo e morte sono i due sostantivi che meglio di altri descrivono quanto sta accadendo da anni in Terra di Palestina.

Grazie.

Rivalta di Torino, 27 settembre 2025

local march for gaza 27/9/25