SIAMO ANCORA IN TANTI DOPO 22 ANNI A RICORDARE ANDREA FILIPPA

Siamo ancora qui, in tanti, dopo 22 anni a ricordare Andrea Filippa, il suo sacrificio, e quello degli altri carabinieri, militari dell’esercito e civili che persero la vita il 12 novembre del 2003. 

Ricordiamo anche i nove cittadini iracheni morti: non erano militari, ma uomini che lavoravano nella base Maestrale con compiti di assistenza e manutenzione. Tutti vittime della della furia terroristica.

Siamo qui in tanti certo per il rispetto, l’amicizia e l’affetto che ci lega alla famiglia Filippa e alla famiglia Cabiddu, ad Antonietta, Monica e Sara, nostre concittadine attive e attente non solo a questo luogo, a questa Piazza che porta il nome di Andrea, ma a tutto quello che succede nella nostra comunità.

Ma siamo qui perché non vogliamo dimenticare Andrea. Seppur per poco, è stato un nostro concittadino e come tale lo abbiamo da subito adottato con amicizia e con affetto. 

Un ragazzo semplice, che ha saputo farsi voler bene. Un ragazzo che aveva scelto un mestiere difficile e rischioso. Ne era consapevole e proprio per questo faceva il suo lavoro con scrupolo e con attenzione.

Ma il destino – no, non il destino – l’uomo, ha voluto che le cose quel 12 novembre andassero diversamente. 

Siamo qui oggi come tutti gli anni passati, perché quella strage è entrata nella memoria collettiva di tutti gli italiani. Si è impressa come una delle pagine più tragiche della storia del nostro esercito dal dopoguerra in poi.

Non è un caso che proprio a seguito dell’attentato di Nassiriya il Parlamento abbia sentito l’esigenza di istituire la “Giornata del ricordo dei Caduti militari e civili nelle missioni internazionali per la pace”. Lo ha fatto con un voto unanime il 12 novembre 2009, in occasione del sesto anniversario.

La storia di quanto successe quella mattina la conosciamo. Il valore eroico del gesto di Andrea è scalfito nella nostra mente, proprio come le immagini della base distrutta. 

Ce n’è una che racconta lo sgomento di quell’istante, il sentimento che ha toccato tutti noi non appena la notizia dell’attentato è arrivata nelle nostre case: la fotografia di un soldato che si aggiusta l’elmetto, lo sguardo a terra, l’arma abbassata lungo il fianco e sullo sfondo un palazzo di tre piani, completamente sventrato dalle esplosioni.

Ricordiamo molto bene perché i nostri militari e civili si trovavano in Iraq. Era in corso la Seconda Guerra del Golfo, la prima guerra trasmessa in mondovisione. 

Tutti abbiamo impresse nella mente le dirette trasmesse a rete unificate che hanno mostrato il conflitto in tempo reale. Il deserto attraversato dai carri armati americani, le truppe d’assalto che scendono dagli elicotteri, le statue del  dittatore iracheno abbattute, il presidente degli Stati Uniti Bush e il suo Segretario di stato Colin Powell impegnati a raccontarci i progressi e le gesta dei soldati.

Oggi tutto questo è stato ampiamente superato dai nuovi mezzi di comunicazione che sempre più svolgono un ruolo fondamentale nell’orientare l’opinione pubblica e la percezione che ciascuno di noi ha delle guerre. Un ruolo, quello dei mezzi di comunicazione, sempre più pervasivo. Uno strumento di dominio e di pressione, una nuova arma di distrazione di massa, che se accettata passivamente, senza lo sforzo della verifica e la curiosità di conoscere, rischia di far venir meno ogni senso critico.

Ma torniamo al 2003: eravamo lì per una missione di pace sotto l’egida dell’ONU e questo rende ancora più ingiusto e irragionevole quanto accaduto.

Ecco un altro motivo per cui oggi siamo ancora qui. 

Perché non vogliamo arrenderci a queste ingiustizie, perché non vogliamo rassegnarci a un mondo che è ancora in guerra e perché vogliamo che di sacrifici come quello di Andrea non ce ne siano più. 

Ecco perché siamo ancora qui dopo 22 anni.

Per ricordare Andrea e per non dimenticarci dei nostri militari e civili che oggi, proprio mentre ci stringiamo in questo momento di ricordo, sono impegnati in 39 missioni di pace in giro per il mondo. Sono quasi ottomila le nostre donne e i nostri uomini al servizio della pace e delle popolazioni oppresse. 

Ecco perché siamo ancora qui. 

Per ricordare Andrea e con lui il sacrificio dei tanti, troppi, carabinieri che ancora in questi giorni hanno perso la vita nell’assolvimento del loro dovere. 

Abbiamo tutti nella mente la tragica fine toccata a Marco Piffari, Davide Bernardello e Valerio Daprà, morti nello scoppio della cascina di Castel D’Azzano. «Il loro sacrificio – ha ricordato in una recente intervista al Corriere della Sera il generale Salvatore Luongo comandante generale dell’Arma – incarna l’essenza del carabiniere: agire con fedeltà al proprio giuramento, difendere la vita e custodire la dignità di ogni persona». Una fedeltà al giuramento che è costata la vita anche al brigadiere capo Carlo Legrottaglie, ucciso il 12 giugno da un colpo di pistola durante un inseguimento, l’ultimo giorno di servizio prima della pensione.

Marco, Davide, Valerio, Carlo anche loro – al pari di Andrea – eroi.

Eroi lasciati in prima linea a combattere la guerra della solitudine e della povertà; eroi lasciati in prima linea a combattere la guerra all’uso di sostanze e di alcol che sempre più rendono insicure le nostre strade, eroi lasciati in prima linea a contrastare criminalità organizzata e mafie.

La fai facile sindaco. È facile parlare dopo che le cose sono accadute.

Lo so che molti di voi lo pensano. Lo pensiamo tutti, lo penso anch’io, quando ascolto i discorsi, troppo spesso di circostanza, dei rappresentanti delle Istituzioni.

Le semplificazioni, i buoni auspici, la retorica spingono a raccontare quello che vogliamo sentirci dire, per rassicurare, rassicurarci e anche auto-assolverci.

È vero, sono vere tutte queste osservazioni, compresa la critica più frequente che viene rivolta alle Istituzioni: “ma voi concretamente cosa fate per cambiare questo stato di cose?”

Certo non abbiamo gli strumenti per fermare da soli la guerra in Ucraina, riportare una pace che ancora non c’è in Medioriente o far cessare le morti dei migranti nel nostro Mediterraneo che è diventato, per usare le parole di Papa Francesco «da culla della civiltà a tomba della dignità». E nemmeno possiamo garantire che altri carabinieri e servitori dello Stato muoiano durante il loro servizio.

Quello che possiamo fare e che dobbiamo continuare a fare è non pensare che a queste tragedie non ci sia rimedio, non pensare che anche i nostri piccoli gesti non possono avere ripercussioni, non assuefarci alle immagini e alle notizie che quotidianamente le televisioni e i social media ci trasmettono.

«La parte giusta non è un luogo dove stare, è piuttosto un orizzonte da raggiungere», dice spesso don Luigi Ciotti.

Ecco, lo sforzo che dobbiamo fare è continuare a inseguire quell’orizzonte, nella nostra quotidianità, nel nostro lavoro, nel nostro impegno sociale.

Solo inseguendo, senza mai fermarci, la parte giusta renderemo onore ad Andrea e a quanti purtroppo non sono più con noi ad inseguire quell’orizzonte.

Rivalta di Torino, 9 novembre 2025